The Years of the Cupola – Studies, 2015
Gli anni della Cupola – Studi, 2015
ISSN: 2364-6373

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Ilaria Becattini

Dalla Selva alla Cupola

Il trasporto del legname dell’Opera di Santa Maria del Fiore
e il suo impiego nel cantiere brunelleschiano

Indice



1. Introduzione

La costruzione o la riedificazione di una cattedrale cittadina è sempre stata investita da forti connotazioni simboliche, civili e religiose. In epoca medievale e moderna, gli esempi di cantieri di chiese cattedrali amministrati e finanziati dalle istituzioni comunali sono molteplici, basti citare il duomo di Orvieto e quello di Siena, rispettivamente iniziati nel 1297 e nel 1315 e, sullo scorcio del XIV secolo, la cattedrale di Milano.1 Nel caso di Firenze, la ricostruzione della chiesa di Santa Reparata fu una decisione approvata dalla maggioranza dell’esecutivo del Comune e il carattere prettamente ‘civico’ dell’impresa si manifestò apertamente nelle motivazioni addotte a tale scelta: la cattedrale, nuovamente intitolata a Santa Maria del Fiore, sarebbe stata riedificata per glorificare Dio e i santi patroni e, allo stesso tempo, per celebrare la magnificenza della Repubblica fiorentina.2 L’ambizioso progetto della ricostruzione del duomo fiorentino fu fortemente permeato dai valori repubblicani e dal dovere di rispondere all’intera comunità.3 Fin dal 1303, il Comune si assunse l’impegno di partecipare al sovvenzionamento dei lavori, finanziati principalmente attraverso donazioni di provenienza ecclesiastica; tuttavia, nel corso dei due secoli successivi, esso divenne il principale patrocinatore dell’impresa.4 Il denaro proveniente dalle casse comunali veniva direttamente amministrato dai quattro Operai di Santa Reparata, scelti fra gli immatricolati a cinque delle sette Arti maggiori della città; essi avevano il compito di sovrintendere e amministrare il cantiere del duomo. Durante i primi decenni del XIV secolo, tuttavia, le costose campagne militari intraprese e la conseguente irregolarità dei finanziamenti pubblici causarono numerose interruzioni dei lavori. La lentezza con cui progrediva la fabbrica della cattedrale spinse il Comune a riorganizzare il sistema di finanziamento dell’Opera e dal 1331 la fabbriceria poté usufruire di una quota fissa proveniente dagli introiti delle casse comunali.5 Con la stessa provvisione, l’amministrazione dei fondi destinati alla ricostruzione del duomo fu affidata ai Consoli dell’Arte della lana, attraverso la nomina di quattro Operai, scelti fra gli iscritti alla corporazione. Con questa riforma, la fabbriceria divenne diretta espressione della più potente corporazione fiorentina, che annoverava ricchissimi mercanti e imprenditori, dotati di elevate competenze manageriali.6

Il carattere di impresa ‘civica’ fu ulteriormente rafforzato quando, nel 1380, il Comune dotò l’Opera delle foreste casentinesi, recentemente sottratte ai conti Guidi di Modigliana. A partire da questa data, gli Operai poterono disporre di un immenso patrimonio forestale da cui trarre il legname necessario all’edificazione della cattedrale e alla prosecuzione degli altri cantieri pubblici cui sovrintendeva in quegli anni.7 Fra le fabbricerie italiane di epoca tardo medievale e moderna, l’Opera di Santa Maria del Fiore non fu l’unico ente a ricevere dalle autorità l’assegnazione dei luoghi da cui provenivano i materiali da costruzione o di franchigie riguardanti il trasporto degli stessi. Ad esempio, negli ultimi decenni del Trecento, Gian Galeazzo Visconti cedette le cave di Candoglia e della Valdossola all’ente preposto alla conduzione del cantiere del duomo di Milano, la Veneranda Fabbrica; circa un secolo più tardi, a Roma, i deputati della Fabbrica di San Pietro ricevettero da papa Paolo III Farnese l’esenzione dai dazi riscossi sul fiume Aniene per il trasporto dei materiali lapidei e di legname. Questi esempi mostrano chiaramente che l’intento delle istituzioni fu quello di contenere l’ingente esborso di denaro necessario ad acquistare e far pervenire al cantiere i materiali da costruzione per il completamento dell’edificio religioso più rappresentativo della città.8 Dobbiamo, tuttavia, rilevare che il caso della fabbriceria fiorentina appare senz’altro sui generis poiché la donazione delle foreste del Casentino non aveva soltanto lo scopo di far giungere a compimento la cattedrale, ma anche quello di assicurare all’Opera una perpetua fonte di guadagno, tale da garantire l’autofinanziamento dell’ente anche dopo il completamento dell’edificio religioso. L’intenzione fu chiaramente esplicitata nell’atto della donazione del 1380, quella con cui il Comune cedette i diritti d’uso della Selva di Campigna, chiamata anche Alpe di Corniolo, in cui, a margine del testo, si trova la seguente annotazione: «acciocché più agilmente et facilmente dicta opera possa durare ad effecto di mantenere dicta chiesa».9 L’analisi condotta da Andrea Giorgi sulle finanze dell’Opera in età moderna ha evidenziato la fondamentale importanza che ebbero i boschi dell’Appennino tosco-romagnolo per l’autofinanziamento dell’ente. Fino alla metà del XV secolo, infatti, gli introiti derivanti dalle vendite di legname erano pari a meno del 5% delle entrate complessive ma, a partire dalla fine del Quattrocento, questa voce di entrata divenne sempre più consistente fino a rappresentare, nel Seicento inoltrato, oltre la metà del totale del bilancio.10 La posizione di preminenza raggiunta dalla fabbriceria nel mercato del legname fu sostenuta grazie all’incremento del patrimonio forestale avvenuto nel corso dei secoli successivi. Nel 1442, con una seconda donazione da parte del Comune, l’Opera ottenne i boschi di Strabatenza e Ridracoli, detta anche ‘foresta della Lama’ (situati nel comprensorio territoriale dell’attuale comune di Badia Prataglia) e nel 1610 di una parte della Montagna Pistoiese.11 La disponibilità di una superficie boschiva così estesa permise alla fabbriceria di diventare una delle principali imprese del Granducato per il commercio del legname al minuto, nonché uno dei maggiori fornitori degli arsenali livornesi. Dalla seconda metà del Cinquecento, infatti, per soddisfare le crescenti richieste di legname da costruzione e per la cantieristica navale, i Medici si rivolsero ai maggiori proprietari delle foreste di abete dell’Appennino tosco-romagnolo e del Casentino, ovvero i monaci di Vallombrosa, i Camaldolesi e, appunto, l’Opera di Santa Maria del Fiore. Questi enti avevano la possibilità di immettere sul mercato grandi quantitativi di legname a prezzi molto più bassi rispetto ai piccoli mercanti; inoltre, la vicinanza delle foreste al fiume Arno e ai suoi affluenti permetteva di contenere notevolmente i costi di trasporto.12

La tavola 1 riporta gli attuali confini del Parco Nazionale delle foreste casentinesi, costituito in gran parte dalle foreste appartenute all’Opera e agli eremi di Camaldoli e di Vallombrosa. In questa carta sono state evidenziate le località alle quali faremo riferimento nelle pagine successive.13 Dobbiamo segnalare, però, che i luoghi indicati nella tavola che abbiamo elaborato fanno parte di due sistemi logistici del tutto indipendenti l’uno dall’altro, consolidatisi in momenti storici diversi. Alcuni contributi scientifici condotti sulla genesi e l’amministrazione del Parco Nazionale asseriscono che il legname dell’Opera veniva fluitato dal porto di Pratovecchio. Tuttavia i documenti de Gli anni della Cupola, edizione digitale di tutti gli atti amministrativi conservati dall’Opera per gli anni 1417-1436, testimoniano che in quel ventennio la navigazione dei tronchi tagliati nei boschi di Campigna iniziava esclusivamente dai porti ubicati lungo la Sieve, per poi proseguire attraverso il corso dell’Arno, fino alle porte della città.14 Soltanto dalla seconda metà del Quattrocento in poi, a partire cioè dalla data di acquisizione delle foreste della Lama, fu potenziato il porto di Pratovecchio e venne sfruttato unicamente il corso dell’Arno. La vicinanza delle foreste al fiume principale della regione fu un fattore fondamentale per il reperimento di legname; malgrado il lungo percorso e l’irregolarità della sua portata, esso rappresentava un tragitto molto più agevole rispetto alla fitta maglia di vie terrestri, inagibili in molti periodi dell’anno e gravate da numerosi dazi.15

La fabbriceria fiorentina utilizzò il legno delle foreste casentinesi fino al 1818, anno in cui la gestione del patrimonio boschivo fu affidata ai monaci di Camaldoli. Per circa quattro secoli, dunque, l’Opera poté usufruire di materia prima in maniera pressoché illimitata e gratuita ed il legno ebbe un’importanza fondamentale per l’economia delle città preindustriali.16 Fino alla scoperta dei combustibili fossili, questo materiale rappresentava la principale fonte energetica dell’epoca, indispensabile per lo svolgimento di numerose attività industriali (si pensi alle manifatture siderurgiche, alle fornaci o anche alla tintura delle stoffe, settore in cui Firenze eccelleva), nonché il principale combustibile ad uso domestico. Esso era impiegato anche come materiale da costruzione per l’edilizia civile e per la cantieristica navale. È necessario sottolineare che la marina mercantile e quella militare erano settori strategici per una città come Firenze, che nei secoli finali del Medioevo si era avviata a diventare una delle maggiori potenze politiche ed economiche a livello internazionale.17 Roberta Morelli, coniando la felice espressione di «foresta industriale», ha osservato che proprio con l’inizio dell’epoca moderna le risorse boschive – e principalmente il legname – iniziarono a essere percepite collettivamente come «misura della ricchezza e l’habitat forestale conseguentemente ambiente da proteggere».18 Tale atteggiamento traspare anche da una rubrica dello Statuto di Firenze del 1415 che vietava a chiunque di portare fuori dal Distretto fiorentino qualsiasi materiale ligneo che fosse adatto alla costruzione di edifici.19 La forte richiesta espressa non solo dalle industrie e dall’artigianato, ma anche dai consumi domestici, portò a nuove modalità di sfruttamento dei suoli boschivi da parte dei governi degli stati territoriali; sfruttamento intensivo, che si poneva in netto contrasto con le esigenze di sopravvivenza delle popolazioni locali, il cui sostentamento dipendeva da questo particolare ambiente.20 Lo stretto rapporto fra foresta e comunità di montagna si evince anche da alcuni statuti urbani e rurali della Toscana redatti in epoca comunale. Essi contenevano specifiche rubriche volte a disciplinare gli usi dei suoli boschivi e a garantire la conservazione delle specie arboree; numerosissime risultano, ad esempio, le norme che limitavano il taglio degli alberi e l’introduzione di bestiame nei pascoli delle foreste. Questo tipo di normativa è presente negli statuti redatti fino all’epoca moderna e si ritrova più frequentemente durante periodi di maggiore pressione demografica, mentre diventa più rara nei secoli caratterizzati da un ristagno della popolazione. Questo si spiega tenendo presente che, durante i periodi di maggiore antropizzazione del territorio, le istituzioni comunali riservavano particolari attenzioni alla salvaguardia del patrimonio boschivo proprio per scongiurare l’esaurimento di questa fondamentale risorsa.21

Nel presente contributo analizzeremo il complesso sistema di rapporti intercorsi fra l’Opera e la foresta. Le fonti sulle quali ci siamo basati sono quelle pubblicate ne Gli anni della Cupola e si riferiscono ad un arco cronologico che va dal 1417 al 1436: ovvero dal primo concorso bandito dalla fabbriceria per il progetto della ‘cupola maggiore’ fino all’anno della realizzazione dell’anello di chiusura, base di appoggio della lanterna marmorea. Questa eccezionale miniera di documenti descrive il cantiere fiorentino in ogni suo aspetto e, per quanto concerne il nostro studio, i numerosissimi atti riguardanti gli appalti e le delibere emesse dagli Operai in materia di gestione forestale, descrivono in maniera dettagliata il sistema di approvvigionamento e di trasporto del legname da costruzione. Gli atti che riguardano le forniture di legname da costruzione hanno permesso di mettere in luce come, in questi decenni, l’Opera riuscì ad organizzare un sistema di sfruttamento del suolo boschivo che potremmo definire ‘industriale’, attuato mediante un massiccio disboscamento e grazie ad una rete di percorsi terrestri e fluviali che collegavano la città alle foreste dell’Appennino.22 Ma la stessa documentazione ha lasciato intravedere un aspetto non correlato direttamente con le vicende costruttive della Cupola ma non per questo meno importante, ovvero il complesso sistema di rapporti intessuto dalla fabbriceria con la foresta e con le popolazioni di montagna. L’intensivo sfruttamento attuato in questi decenni ebbe senza dubbio un forte impatto sull’intera zona, non solo a causa dell’ingente opera di deforestazione ma anche perché, proprio nei decenni a cui ci riferiamo, fu potenziata una rete di infrastrutture che collegavano il cantiere, e quindi la città, alle foreste della Romagna toscana.

Tuttavia, accanto all’esigenza di garantire incessanti forniture di legname al cantiere della Cupola, l’Opera manifestò la consapevolezza che il patrimonio forestale non era una risorsa inesauribile e, pertanto, essa necessitava di una gestione oculata e di specifiche cure, tali da garantirne la sopravvivenza. In conclusione, le fonti consultate ci hanno permesso di descrivere minuziosamente la modalità con cui avveniva l’approvvigionamento di materiali lignei ma soprattutto hanno evidenziato il fondamentale contributo che il territorio, con le sue risorse e i suoi uomini, apportò alla realizzazione del progetto brunelleschiano.

2. La gestione del patrimonio forestale: alla ricerca di un equilibrio fra sfruttamento intensivo e conservazione

L’utilizzazione delle risorse boschive non poteva prescindere da un’attenta gestione della foresta, attuata mediante una precisa suddivisione di compiti ripartiti fra i vari funzionari dell’Opera. Proprio in quest’ambito risulta evidente l’identificazione fra la fabbriceria, diretta espressione di una delle più potenti corporazioni cittadine, e la Repubblica fiorentina, poiché in più di un’occasione gli ufficiali giudiziari presenti sul territorio furono attivamente coinvolti nell’attuazione delle norme emesse in materia forestale.23 A titolo d’esempio, citiamo una delibera datata 1417, con la quale si ordinava al podestà di Portico di dirimere la controversia sorta fra gli uomini di Corniolo e la fabbriceria sull’effettiva proprietà di alcuni prati concessi ai conduttori.24

L’importanza che la Selva ebbe per l’Opera di Santa Maria del Fiore è confermata dal fatto che la normativa inerente al governo delle foreste era emanata dai Consoli dell’Arte della lana, i quali avevano anche la prerogativa di autorizzare il disboscamento e di stabilire il prezzo del legname venduto sulla piazza cittadina.25 In questi anni, i provvedimenti in materia forestale riguardavano principalmente la regolamentazione dei tagli e il rimboschimento, assieme ad alcune sporadiche misure volte ad assicurare le più rudimentali cure colturali.26 Alcuni documenti contenuti ne Gli anni della Cupola mostrano, infatti, che la foresta era percepita come una vera e propria risorsa, del tutto subordinata alle esigenze del cantiere. In questo senso dobbiamo interpretare l’ingiunzione con cui si ordinò alla guardia della Selva di intaccare i faggi che con la loro ombra danneggiavano le piccole piante di abete, l’essenza che per le dimensioni dei suoi tronchi e per le sue caratteristiche meccaniche era la più utilizzata nella cantieristica.27

Una corretta amministrazione del patrimonio ricevuto in dono dal Comune si basava sulla conoscenza aggiornata e circostanziata dello stato di salute delle specie arboree. A tal fine, uno degli Operai era periodicamente incaricato di recarsi presso la Selva «ad videndum et providendum quecumque pro ipsa Opera utilia et necessaria et visa et provisa referendum officio supradicto».28 Durante questi sopralluoghi, spesati dalla fabbriceria, l’ufficiale era sempre accompagnato dal provveditore o dal capomaestro, o da entrambi e questo perché il coinvolgimento del personale che dirigeva il cantiere era di fondamentale importanza per il reperimento di un buon materiale da costruzione.29 Queste due figure avevano il compito di sovrintendere all’attuazione del programma costruttivo e proprio per questo, essi avevano l’autorizzazione di procedere con gli appalti delle forniture dei materiali e di controllarne quantità e qualità. Il capomaestro, in particolare, data la sua approfondita conoscenza delle caratteristiche meccaniche delle varie essenze e il quotidiano contatto con lo stato di avanzamento dei lavori, aveva il compito di fornire ai conduttori le misure dei tronchi richiesti nei contratti di appalto.30

Al suo ritorno dal sopralluogo nella foresta, l’Operaio avrebbe dovuto fare rapporto di fronte all’intero esecutivo circa le condizioni generali delle foreste e l’operato dell’ufficiale addetto alla custodia, la ‘guardia della Selva’.31 L’esito di questo resoconto era determinante per l’eventuale riconferma del custode, il cui incarico, di durata annuale, prevedeva la vigilanza sul patrimonio forestale dell’Opera e per eseguire le operazioni necessarie alla conservazione del manto boschivo.32 Il guardiano era coadiuvato e affiancato dai rettori del contado e dai podestà dei comuni limitrofi, invitati a prestare «auxilium, consilium et favorem» per tutto quello che concerneva l’individuazione e la sanzione di coloro che arrecavano danno alle proprietà della fabbriceria.33 Relativamente all’arco cronologico preso in esame nel presente studio, i documenti mostrano che l’incarico di guardia della Selva fu affidato esclusivamente a persone del luogo; dal 1417 al 1436, infatti, furono nominati soltanto tre guardiani: Piero di Albonino da Castagno e suo figlio Jacopo e, per un brevissimo periodo, Francesco di Comuccio da San Godenzo.34 L’approfondita conoscenza del territorio era, d’altronde, un elemento determinante per svolgere un efficace servizio di vigilanza, senza contare che la familiarità con gli autoctoni rendeva più facile riconoscere e segnalare i trasgressori.35 In alcune occasioni, inoltre, la guardia fu incaricata di svolgere condotte di particolare importanza, per le quali l’Opera non si volle affidare al lavoro dei pur esperti trasportatori.36 Ma non solo. I contratti di appalto e i pagamenti accreditati ai trasportatori mostrano che questo ufficiale aveva un ruolo ben preciso nello svolgimento delle condotte. Egli doveva, infatti, controllare l’operato di ciascun conduttore presso i luoghi di esbosco e produrre la cosiddetta ‘fede’, un documento, cioè, in cui si attestava che il numero e la dimensione dei tronchi abbattuti erano conformi alle disposizioni stabilite nel contratto di appalto.37 In base a quanto riportato nella fede della guardia, il provveditore poteva autorizzare il pagamento del conduttore o procedere con l’applicazione delle sanzioni previste in caso di mancato rispetto delle clausole contrattuali. Ad esempio, nel maggio del 1425 il camarlingo – cioè il tesoriere della fabbriceria – ricevette dagli Operai il divieto di procedere al pagamento di Jacopo di Agnolo da Dicomano, proprio perché la fede aveva dichiarato che il legname tagliato era stato abbandonato nella foresta e per questo si era «corrupto, fradicio et maculato».38 Il giorno successivo il provveditore addebitò ad alcuni conduttori il costo dei tronchi marciti; fra i nomi degli appaltatori inadempienti compare anche quello di Jacopo di Agnolo, il quale avrebbe dovuto pagare una penale aggiuntiva qualora la fede avesse riportato un numero eccedente di alberi abbattuti rispetto a quanto richiesto.39

La documentazione relativa alle condotte di legname appaltate fra il 1417 e il 1436 lascia intravedere il costante rapporto di conflitto fra l’Opera e gli uomini dei villaggi di montagna. Se per l’ente la foresta rappresentava principalmente il luogo di approvvigionamento di materiale, per gli abitanti delle comunità limitrofe, essa continuava ad essere abituale ambiente di riferimento e fonte di sussistenza.40 L’importanza di questo habitat per le economie delle comunità locali è confermata dall’attenzione rivolta alle specie arboree e agli erbatici da parte di alcuni statuti rurali e urbani della Toscana tardomedievale, i quali prevedevano, ad esempio, misure punitive per chiunque arrecasse danno agli alberi fruttiferi, castagni e querce, o per il bestiame indebitamente introdotto nelle pasture.41 Tali divieti sono ribaditi con frequenza anche dagli Operai durante il ventennio che abbiamo preso in esame e la loro reiterazione attesta che l’infrazione di tali norme doveva essere una pratica molto diffusa fra le popolazioni locali.42 In una delibera del 1422 si fa addirittura riferimento ai danni quotidianamente inferti dalle greggi ai giovani alberi e di seguito fu stabilita una serie di pene pecuniarie commisurate al numero e al tipo di bestiame, secondo un vero e proprio tariffario: chiunque si fosse introdotto con bestie grosse nell’Alpe di Corniolo sarebbe incorso in una sanzione di venti soldi per ciascun capo di bestiame e cinque soldi per ogni animale di piccola taglia. Le pene salivano notevolmente se si trattava di intere mandrie o greggi, e cioè un numero di bestie superiore ai venticinque capi. In tal caso, i contravventori avrebbero dovuto sborsare dieci lire o cinque lire, in base alla taglia dell’animale. Inoltre, per incentivare le segnalazioni dei trasgressori, si ordinò che chiunque avesse mosso un’accusa sarebbe stato ricompensato con la quarta parte delle sanzioni applicate. Naturalmente da queste disposizioni furono esclusi i conduttori di legname dell’Opera e i loro buoi, ai quali fu dichiaratamente concesso diritto di transito e di pascolo sui territori della foresta di Campigna.43

Nonostante l’esigenza principale fosse quella di assicurare al cantiere i materiali da costruzione, la fabbriceria manifestò la consapevolezza che la foresta costituiva una risorsa limitata e, conseguentemente, il legname un materiale prezioso. Non possiamo certamente parlare di parsimonia, dati gli ingenti quantitativi di materiale commissionato ai conduttori durante gli anni in cui fu portata a termine l’edificazione di Santa Maria del Fiore, ma di massimo impegno profuso dal personale dell’Opera per evitare inutili sprechi. Abbiamo già menzionato le sanzioni applicate ai conduttori che, a causa della loro incuria, avevano fatto marcire i tronchi abbandonati nella Selva, ma i documenti riportano numerosi casi in cui il legno venne reimpiegato, rivenduto, riadattato e persino prestato. Ad esempio, nel 1419 il capomaestro ed il provveditore stimarono i materiali lignei e metallici dismessi a seguito della ristrutturazione del convento di Santa Maria Novella prima di procedere alla loro vendita.44 Nel 1426 il capomaestro ricevette l’incarico di procedere con il restauro della volta di una delle tribune; il documento con il quale l’Opera ordinò tale ristrutturazione ci informa che questo spazio era adibito a deposito per il legname, probabilmente i componenti di impalcature e ponteggi dismessi, e che nello stesso luogo avvenivano quotidianamente le compravendite di tale materiale.45 Il legno ‘buono’, invece, veniva prestato dietro precise garanzie, come avvenne, ad esempio, quando la fabbriceria autorizzò la cessione di quattro travi agli ufficiali della gabella del sale, impegnandoli a restituirle in buono stato e nelle dimensioni originali.46 In più di un’occasione, inoltre, l’Opera rimborsò le spese di viaggio sostenute dai trasportatori per recuperare il legname disperso durante la fluitazione, persino quando il conduttore Bartolo di Bonaiuto si dovette recare in Sardegna per riprendere quattro quadroni di abete.47 Nella Selva, il guardiano fu periodicamente incaricato di segare e condurre gli alberi caduti spontaneamente, mentre gli abeti «biforcuti» e storti, inadatti per ricavare lunghe travi, venivano segati per fare i ‘mozzi’, pezzi dalle dimensioni contenute con i quali realizzare assi e tavole che presumibilmente sarebbero diventati i camminamenti orizzontali dei ponteggi.48

3. Il potenziamento del sistema logistico per l’approvvigionamento di materiale (1417-1422)

Le nostre fonti attestano che ben prima dell’avvio del cantiere della Cupola, l’Opera reperiva materiali lignei presso le foreste ricevute in dono dal Comune e possiamo supporre che il disboscamento fosse iniziato già a partire dalla data della donazione (1380)49. Tuttavia, negli anni immediatamente precedenti alla costruzione della volta maggiore, gli Operai misero in atto una serie di disposizioni, volte a migliorare il sistema dei trasporti dei tronchi dalla foresta di Campigna e ad amministrare il patrimonio forestale in maniera più attenta. Nel 1417 essi ordinarono di procedere con la costruzione di una nuova strada di smacchio, ovvero il percorso terrestre che sarebbe servito per la discesa dei tronchi a valle, ed i lavori furono affidati alla direzione di Mannino di Jacopo da Pontassieve. Per l’allestimento della «via della Selva», egli ebbe a sua disposizione due maestri di piccone e fu tenuto ad annotare le spese sostenute durante i lavori. Il costo dell’infrastruttura, infatti, sarebbe stato ripagato dai conduttori al servizio dell’Opera mediante una trattenuta sui loro compensi, pari a dodici denari per ogni traino trasportato.50 L’anno successivo, gli Operai chiamarono a rapporto la guardia per avere informazioni sullo stato di salute del manto boschivo; poco tempo dopo, uno degli Operai, Jacopo Vecchietti, il provveditore e il capomaestro furono inviati nella Selva per sollecitare i lavori di disboscamento in vista delle incombenti richieste di legname.51

Queste disposizioni traducono la preoccupazione per l’inizio dei lavori della Cupola; a breve, infatti, l’avanzamento del cantiere avrebbe richiesto forniture massicce e regolari di materiale da costruzione. Tale stato di allerta era dettato dalle cattive condizioni dei boschi di Campigna che gli Operai ebbero modo di constatare in una delibera del giugno 1420. Nel corso di questa assemblea, furono scelti tre membri del personale interno per attuare tutte le misure necessarie ad avviare il disboscamento e le forniture di legname al cantiere della volta maggiore: l’Operaio Simone di Filippo Strozzi e il capomaestro Battista di Antonio avrebbero dovuto reclutare i boscaioli e i conduttori da impiegare nell’abbattimento degli alberi e nel trasporto, da retribuire con la cifra complessiva di quattrocento lire, appositamente stanziate per questo scopo; il ragioniere della fabbriceria, Antonio di Tommaso Mazzetti, ricevette il compito di dirigere il lavoro dei conduttori secondo le disposizioni dettate dagli altri due ufficiali e pertanto fu obbligato a soggiornare in Casentino per un certo periodo.52 I tre membri della commissione a cui fu demandato l’allestimento della Selva furono scelti in base alle loro specifiche competenze e al ruolo che essi avevano all’interno dell’organico dell’Opera. Fin dal 1419 lo Strozzi faceva parte degli ‘ufficiali della Cupola’, il gruppo di esperti che avrebbe dovuto sovrintendere alla realizzazione del progetto. Egli, dunque, possedeva una conoscenza approfondita di ciascuna fase progettuale e dello stato di avanzamento dei lavori; proprio per questo fu inviato nella Selva in compagnia del direttore del cantiere, il solo in grado di stabilire quantità e caratteristiche del materiale da costruzione di cui il cantiere aveva bisogno.53 L’ufficiale e il tecnico furono affiancati dal più esperto contabile che l’Opera aveva a disposizione, il quale, nonostante le fonti non lo dicano espressamente, fu probabilmente scelto per registrare i compensi dovuti ai trasportatori reclutati in quest’occasione.54

L’esigenza di disporre di ingenti quantitativi di materiale era talmente pressante che, appena dodici giorni dopo la data della suddetta delibera, l’Opera affidò a Simone di Filippo Strozzi l’ulteriore incarico di stabilire la quantità di tronchi da abbattere per iniziare l’edificazione della Cupola. Con il conferimento di tale compito, gli Operai precisarono che, qualora Strozzi lo avesse ritenuto utile, la superficie destinata al disboscamento potesse raggiungere fino alla metà dell’estensione complessiva del Piano di Campigna. Leggendo l’atto, non possiamo fare a meno di notare che, dopo aver elogiato l’ufficiale per la sua onestà e prudenza, ed aver dichiarato solennemente che egli agiva nell’interesse dell’Opera e per il bene della città intera, gli Operai concessero esplicita autorizzazione affinché lo Strozzi si procurasse il legname che gli mancava per completare la costruzione di alcune sue stanze private, ovvero due camere e una sala.55

L’impegno profuso per garantire la regolarità degli approvvigionamenti non si esaurì con i lavori di ripristino della Selva ma riguardò anche l’organizzazione del trasporto fluviale che partiva dai punti di approdo ubicati lungo la Sieve e dallo scalo cittadino. Dal 1417, infatti, i pagamenti stanziati per l’estrazione del legname che giungeva alle porte di Firenze furono accreditati ad un unico carradore (tabella A), mentre, due anni dopo, l’Opera nominò un proprio uomo di fiducia per dirigere il traffico di materiale laddove terminava il trasporto terrestre e iniziava la fluitazione. Il prescelto fu, ancora una volta, Mannino di Jacopo, lo stesso conduttore che, come abbiamo visto, aveva diretto i lavori di allestimento della via di smacchio. Nel novembre del 1422, Mannino fu eletto ‘guardia dell’Opera’, con l’incarico di ricevere presso il porto fluviale i tronchi ivi condotti dalla Selva e di registrarli in un’apposita contabilità per evitare tentativi di frode da parte dei trasportatori.56 Il mese successivo lo stesso funzionario ricevette il compito di ‘foderare e condurre’ tutto il legname appaltato dalla fabbriceria, ruolo che si era guadagnato per avere precedentemente svolto «cum solertia et diligentia» numerose condotte, nonché la fluitazione di alcuni quantitativi di materiale.57 Il foderatore era la figura preposta alla costruzione dei ‘foderi’, ovvero le zattere assemblate con i tronchi abbattuti che venivano legati con un traliccio o una fune, alternando travi grandi e pezzi piccoli per facilitare il galleggiamento; queste imbarcazioni venivano successivamente immerse in acqua e guidate dal foderatore mediante una lunga pertica, fino al luogo di approdo.58 Nell’incisione realizzata da Giuseppe Zocchi nel 1744 della veduta della città da Porta San Niccolò, si può osservare in primo piano un piccolo gruppo di zatterieri intenti nella navigazione dei foderi; l’artista ha riprodotto nei minimi dettagli la struttura di queste imbarcazioni, tanto che si scorgono persino le corde che tenevano insieme il tavolato di assi (Fig. 1). Nonostante lo Zocchi sia vissuto nel XVIII secolo, possiamo supporre che la struttura delle zattere sia rimasta pressoché invariata rispetto ai primi decenni del Quattrocento.


Figura 1

Fig. 1. Giuseppe Zocchi, disegno preparatorio dell’incisione Veduta di una parte di Firenze presa fuori della Porta a S. Niccolò presso al Fiume Arno, 1744. Particolare dei foderi in sosta presso la riva sinistra dell’Arno.
Per gentile concessione di The Morgan Library & Museum (riproduzione riservata).

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L’intenzione di migliorare l’intero sistema logistico emerge con chiarezza dalle disposizioni emesse dagli Operai in questi anni. Il personale interno della fabbriceria aveva specifiche competenze, a seconda del proprio grado: la gestione del patrimonio forestale era demandata ai Consoli dell’Arte della lana, i quali autorizzavano, come vedremo fra breve, capomaestro e provveditore a procedere con gli appalti delle forniture, mentre le funzioni di vigilanza sull’operato dei trasportatori erano delegate alla guardia della Selva e al foderatore. L’intero meccanismo delle condotte di legname non previde mai – dobbiamo sottolinearlo – il coinvolgimento del progettista della Cupola, Filippo Brunelleschi, al contrario di quanto accadde per altri tipi di materiali da costruzione. Gli anni della Cupola contiene soltanto il pagamento di alcuni «panchoni [...] e angholi» di quercia, acquistati dall’architetto per collegare le travi di castagno della catena.59 Numerosi documenti attestano che l’architetto fu chiamato a sovrintendere alla fornitura di laterizi e di calcina; in alcune occasioni egli concesse alcuni appalti per le forniture di mattoni e materiali lapidei, oltre a curare personalmente il contratto di concessione stipulato con i proprietari della cava di Trassinaia.60

Il marmo, in special modo, il suo reperimento ed il suo trasporto, fu oggetto di particolari attenzioni da parte del Brunelleschi. I documenti de Gli anni della Cupola mostrano che egli svolse personalmente alcune condotte ed arrivò persino a progettare e realizzare un apposito tipo di imbarcazione, il cosiddetto ‘badalone’, che nelle intenzioni dell’architetto avrebbe dovuto rendere più agevole la risalita del corso dell’Arno.61 Sia il marmo che il legno provenivano da zone poste a molti chilometri di distanza da Firenze e il loro trasporto avveniva sfruttando percorsi terrestri e fluviali.62 Ciononostante, una condotta di marmo era cosa ben più impegnativa e dispendiosa in termini economici rispetto all’approvvigionamento di tronchi casentinesi, e questo per vari motivi.63 Innanzitutto, dobbiamo considerare le difficoltà nella movimentazione di un carico così pesante e allo stesso tempo costoso, il quale, per giungere a destinazione, doveva risalire la corrente dell’Arno. A questo si aggiungevano altre complicazioni, quali la scarsa portata del fiume durante la stagione estiva e l’impossibilità di utilizzare le vie fluviali in alcuni periodi dell’anno, tanto che l’Opera in alcuni casi previde il pagamento di un prezzo maggiorato, qualora si fosse reso necessario il ricorso al trasporto terrestre.64 Inoltre, a differenza delle foreste di Campigna, le cave di Carrara erano situate fuori dal Distretto fiorentino e pertanto il trasporto di materiale avveniva su una rete di percorsi che in larga parte si estendeva nel territorio di Lucca e su cui il Comune di Firenze non aveva alcuna autorità.65 Come attestano alcuni documenti, le tensioni politiche fra le due città, sfociate in un conflitto armato proprio in questi anni, causarono notevoli disagi al normale svolgimento delle condotte. In più di un’occasione, infatti, gli Operai si riunirono per deliberare circa la necessità di inviare una missiva al consiglio degli Anziani di Lucca per permettere il passaggio dei conduttori sulle vie di terra e di acqua o per riottenere il materiale sequestrato dalle autorità lucchesi ben prima che iniziasse la guerra.66 Non sorprende, quindi, che la fabbriceria mettesse a suo servizio l’ingegno di Brunelleschi per sopperire alle difficoltà che il trasporto del marmo comportava. Per quanto riguarda le allogagioni di legname, invece, l’Opera poté avvalersi del personale interno presente nella Selva e nei punti di approdo del materiale, oltre alla collaborazione dei podestà e vicari insediati nei villaggi di montagna. Tutto ciò fu possibile proprio in virtù del fatto che la rete di strade terrestri e fluviali, ampiamente collaudata negli anni successivi alla donazione di Campigna, era interamente compresa entro i confini del territorio fiorentino.67

Queste considerazioni nulla tolgono all’importanza che gli approvvigionamenti di materiali lignei ebbero per la realizzazione del grandioso progetto brunelleschiano. Nelle pagine che seguono descriveremo le varie fasi di una condotta di legname, seguendo, tappa per tappa, il tragitto attraverso cui il materiale giungeva dalle foreste dell’Appennino tosco-romagnolo fino al cantiere della cattedrale fiorentina.

4. L’estrazione e la condotta: dalla foresta ai porti fluviali

Oltre ad aver strutturato un sistema di vigilanza e di gestione del patrimonio forestale, gli Operai riuscirono ad attuare un regolare sistema di appalti che prevedeva il disboscamento e il trasporto dei tronchi fino alla città. Le incessanti forniture di materiali lignei erano regolate, infatti, da un contratto, chiamato ‘allogagione’, che veniva stipulato fra l’ente e il conduttore. L’appalto era preceduto da un iter burocratico ben preciso: il collegio degli Operai autorizzava il provveditore e il capomaestro a «locare ad incidendum et conducendum de lignis silve Operis», ovvero a procedere con la condotta.68 Le allogagioni stabilivano, inoltre, gli impegni assunti dal contraente, il suo compenso e le modalità con cui il trasporto del materiale sarebbe dovuto avvenire. Colui che si aggiudicava la concessione, si impegnava a fornire entro i termini stabiliti e a trasportare fino al porto cittadino la quantità di tronchi richiesta dalla fabbriceria, lavorata e segata secondo le misure dettate dal capomaestro; egli era inoltre responsabile del materiale trasportato durante tutto lo svolgimento della condotta.

Si tratta di un tipo di documentazione di grande interesse per lo studio dello sfruttamento del patrimonio boschivo attuato dalla fabbriceria durante gli anni in cui fu edificata la Cupola. Esso contiene, infatti, tutta una serie di disposizioni che descrivono le fasi della lavorazione del legno e il tragitto che i tronchi avrebbero compiuto per giungere in città. Tutti i conduttori furono obbligati da contratto a ‘tagliare’, ‘dolare’, ‘estrarre’ dalla Selva ed infine a ‘governare’ e ‘condurre’ il legname fino ai porti fluviali.69 Le più dettagliate contengono le uniche informazioni che ci sono pervenute circa la descrizione precisa della forma e delle dimensioni delle travi appaltate (tabella D in Appendice).70

Seguendo l’ordine in cui si trovano elencati nei documenti, il primo obbligo a cui era tenuto il conduttore consisteva nel tagliare – o ‘incidere’ se l’atto è in latino – gli alberi in piedi, operazione che doveva tassativamente avvenire nelle zone indicate dal provveditore o dal capomaestro.71 In alcune allogagioni si trovano, infatti, espressioni del tipo «non possit incidere in locis prohibitis, sed solum et dumtaxat in locis permissis»; mentre altre, per indicare le zone di esbosco, riportano persino la microtoponomastica in uso in questi territori, quale, ad esempio, Ronco del Conte, Tana del Nasso, Rio delle Tavole, non più rintracciabile nella cartografia attuale.72 Altre volte, l’area prescelta per l’abbattimento degli alberi fu genericamente identificata come ‘all’acqua di Campigna’, riferendosi a uno dei piccoli torrenti montani che scorrevano all’interno della foresta ma che certamente non avevano una portata tale da permettere la fluitazione dei foderi.73 Ad ogni modo, i riferimenti ad una zona ben precisa, chiamata «piano di Campigna», sono molto frequenti all’interno della documentazione; altrettanto frequenti sono i documenti nei quali questo toponimo viene spesso contrapposto al resto del manto boschivo, genericamente individuato dall’estensore dell’atto come «altra selva».74 Se osserviamo le curve di livello della tavola 2, dove viene illustrato il percorso del legname proveniente da queste zone, possiamo notare che il villaggio che portava lo stesso nome dell’altipiano, tutt’oggi esistente, era situato al centro di una zona caratterizzata da una pendenza più dolce rispetto all’area circostante. Questo fattore facilitava non poco l’abbattimento e la discesa dei tronchi a valle e, di conseguenza, il prezzo finale del legname proveniente da Campigna aveva un costo relativamente contenuto. Lo conferma un documento con il quale l’Opera autorizzava Caroccio Strozzi ad abbattere alcuni alberi nella Selva e nel quale furono stabiliti i prezzi dei traini in base al luogo del loro reperimento. Lo Strozzi ebbe la possibilità di scegliere la zona da adibire al disboscamento ed avrebbe dovuto pagare trenta soldi per traino se gli alberi fossero stati abbattuti nel piano di Campigna o venti se il taglio fosse avvenuto in qualsiasi altra zona della foresta.75 Il costo più elevato dei tronchi abbattuti in questa porzione del manto boschivo trova spiegazione nel fatto che, durante il ventennio 1417-1436, l’area situata sull’altopiano era riservata quasi esclusivamente ai bisogni dell’ente, come dimostra una delibera emanata nell’ottobre del 1427, con la quale gli Operai e i Consoli dell’Arte della lana vietarono la concessione di licenze di taglio relative ai boschi di Campigna. L’atto stabiliva, inoltre, che i Consoli avessero la possibilità di decidere se autorizzare o meno le richieste di taglio che in futuro sarebbero state presentate da privati cittadini per la stessa zona.76 I documenti de Gli anni della Cupola mostrano, infatti, che fra il 1417 ed il 1436, le licenze di taglio rilasciate per i boschi dell’altipiano furono concesse con parsimonia, mentre alcuni fra i più importanti cantieri pubblici cittadini avviati in questo lasso di tempo ricevettero il legname che la delibera del ’27 aveva ufficialmente riservato alla fabbriceria.77 Nel corso dei decenni successivi, nonostante l’ingrandimento del patrimonio forestale dell’Opera, con l’acquisizione dei boschi di Strabatenza e Ridracoli, i Consoli dell’Arte della lana ribadirono in due diverse provvisioni l’esclusivo diritto di taglio in questa porzione di foresta.78

L’abbattimento dell’albero era seguito da quella che i documenti chiamano ‘dolatura’, operazione con cui si tagliavano i rami, la cima dell’albero e la corteccia, ottenendo un fusto o ‘toppo’ il cui trasporto era reso più agevole dall’assenza di fronde.79 L’esatto significato di questo termine non è desumibile dal testo, tuttavia alcuni contratti di allogagione, quando menzionano la dolatura, fanno riferimento agli angoli vivi che avrebbero dovuto essere conferiti ai tronchi: «dolare a canti vivi, tam in vecta quam in pedale», ad esempio; oppure «bene dolatos ad angulos vivos in vetta et in pedalibus»; così come i castagni della condotta affidata a Nuto di Giovanni da Vierle, i quali sarebbero dovuti essere ben dolati e «accantonati».80 Frasi di questo tipo indicano, evidentemente, che i fusti dolati non erano soltanto privati delle fronde e della parte più alta dell’albero ma che essi erano anche squadrati, operazione con la quale veniva conferita al tronco una sezione quadrangolare, costante dal piede alla cima. La licenza di taglio concessa dagli Operai a Roberto Salviati nel 1426 conferma tale ipotesi, poiché questo documento stabiliva il prezzo di traini «non digrossatos nec dolatos», lasciando intendere che l’allestimento degli alberi appena abbattuti comprendeva gradi diversi di lavorazione: la sbozzatura con cui si eliminavo le fronde e la dolatura vera e propria.81

Non è possibile stabilire con certezza in quale momento della condotta, il legname fosse sottoposto al depezzamento, la fase di lavorazione che prevedeva l’asportazione dei rami e la sgrossatura del tronco. Basandoci sulla successione delle operazioni riportata nei contratti di appalto, potremmo affermare che i fusti venissero dolati subito dopo l’abbattimento dell’albero e prima del trasporto, operazioni — taglio e dolatura — il cui buon esito veniva comunicato al personale della fabbriceria mediante la fede prodotta dal custode della Selva e per le quali il conduttore riceveva un anticipo sul compenso pattuito.82 Un recente studio sulle tecniche di segagione in uso in Italia fra l’inizio dell’Ottocento e la metà del secolo successivo, ha dimostrato che prima della rivoluzione industriale, le diverse modalità con cui veniva effettuato il trasporto determinavano il grado di lavorazione dei tronchi. Nelle zone in cui la condotta avveniva mediante trascinamento del materiale o laddove i tronchi erano gettati a valle attraverso canali artificiali, detti risine, il fusto veniva privato soltanto delle fronde, questo perché la forza d’attrito avrebbe consumato una parte della superficie esterna, rendendo superflue le ulteriori fasi di rifinitura. Nelle zone di montagna dove si utilizzavano carri o slitte, la squadratura avveniva subito dopo l’abbattimento e veniva effettuata impiegando apposite asce o seghe a telaio manovrate da due boscaioli: l’asportazione di una parte considerevole del tronco permetteva di ridurre notevolmente il volume del carico, rendendo più agevole e veloce la discesa a valle.83 Slitte per il trasporto di legname e altri generi agricoli sono rimaste in uso fino ad un recente passato nelle zone montuose dell’Italia centro-settentrionale, fra cui il territorio di Corniolo ed il Casentino. Pur presentando varietà costruttive e nomi diversi in base ai luoghi, esse erano composte da un piano di carico ed un sistema di traverse poggianti su due pattini, costituiti da due assi di legno ricurvo. Mentre il nome tradizionale delle slitte da legname usato nei territori dell’Appennino tosco-romagnolo era treggia (dal latino trahere, tirare), il Di Bérenger le definisce genericamente come ‘traini’, lo stesso termine che è attestato anche nella nostra documentazione per indicare la quantità del legname appaltato nei contratti di allogagione. Possiamo pertanto ipotizzare che slitte da legname fossero in uso nei boschi di Campigna già durante i primi decenni del Quattrocento, nonostante le nostre fonti non menzionino mai i mezzi di trasporto usati dai conduttori.84 Questo dato non è tuttavia sufficiente per affermare con certezza che la squadratura dei tronchi dell’Opera fosse effettuata sul luogo dell’abbattimento, soprattutto se pensiamo che la documentazione relativa agli anni 1417-1436 dimostra che la fabbriceria aveva allestito una sega ad acqua per «secari a canti vivi» il legname giacente presso il porto fluviale di Dicomano.85 Alla luce di quanto desunto dalla documentazione, possiamo ipotizzare che i tronchi abbattuti nella Selva dell’Opera fossero stati sfrondati subito dopo il taglio e prima di essere caricati sulle slitte ma che la squadratura vera e propria venisse effettuata a valle, utilizzando l’opificio che la fabbriceria aveva messo a disposizione dei conduttori.86 La nostra ipotesi trova conferma nel documento che abbiamo citato precedentemente, dove si faceva riferimento alle due diverse fasi in cui consisteva il depezzamento del legname, ovvero la sgrossatura e la dolatura.87

Dopo aver dato disposizioni sulle operazioni da svolgere presso i luoghi di esbosco, il contratto di allogagione regolava il trasporto vero e proprio, che consisteva nel ‘governare e condurre’ il materiale fino «ad locum in quo solitum est conduci lignamina pro foderando et mictendo in aquam», ovvero fino al luogo identificato nei documenti come porto o fiume di «Moscia sive Dicomani».88 Sebbene siano spesso utilizzati in coppia, questi toponimi si riferiscono a due punti geograficamente diversi: il primo è il nome di un piccolo corso d’acqua che scorre attraverso la foresta fino a sfociare nella Sieve all’altezza del villaggio di Sandetole, il secondo è una località situata poco più a Nord, dove l’attuale torrente San Godenzo si getta nella Sieve (tavola 2). Potremmo dunque ipotizzare che i porti fossero stati due, ciascuno situato sul punto in cui i due torrenti di montagna incontravano il fiume maggiore, ma a questo proposito le fonti presentano non poche contraddizioni. Solo per citare alcuni esempi, un ricordo del provveditore attesta che nel 1433 gli Operai ordinarono di scrivere una lettera al Podestà di Dicomano per sollecitare il trasporto del legname giacente nella Selva presso i porti ma, nella trascrizione dello stesso atto contenuta nel registro del notaio, si legge che il luogo adibito alla consegna era il porto di Moscia.89 In uno stanziamento dello stesso anno, che autorizzava la retribuzione di Jacopo di Sandro, fu stabilito che il trasportatore avrebbe dovuto ricevere il suo compenso soltanto dopo la ricezione della fede del guardiano, in cui si testimoniava che il materiale era pervenuto al porto di Dicomano. La relativa delibera, tuttavia, ordinava che la destinazione dei 60 traini appaltati a Jacopo fosse il porto di Moscia.90

Incongruenze dello stesso tipo si ritrovano anche nei pochi documenti che menzionano le seghe ad acqua allestite dall’Opera: secondo quanto riportato in alcuni atti, una di queste si trovava nei pressi del villaggio di Castagno, situato nei boschi dell’Appennino tosco-emiliano, ma per quanto riguarda le indicazioni sull’ubicazione della segheria posta a valle, le fonti non sono altrettanto chiare.91 Prendiamo come esempio i due atti relativi alla condotta appaltata a Jacopo di Sandro: il ricordo dello stanziamento redatto per mano del provveditore ci informa che egli era stato incaricato di portare il legname giacente nella Selva presso la segheria ma l’atto corrispondente menziona sia Dicomano che Moscia.92 Nonostante le informazioni contrastanti che alcuni documenti ci forniscono, l’atto con cui fu autorizzata la vendita di 160 assi al convento fiesolano di San Domenico dissolve ogni dubbio al riguardo, poiché vi si trova esplicitamente dichiarato che il legname dell’Opera veniva tagliato con «la segha de l’abetti […] abile a Dechomano».93 Allo stesso modo, gli atti relativi alla manutenzione delle vie di smacchio allestite dalla fabbriceria contengono riferimenti geografici meno contraddittori e sembrano confermare l’esistenza di due diversi porti fluviali. Essi attestano che durante il ventennio compreso fra il 1417 e il 1436 i conduttori sfruttavano una rete viaria formata da un reticolo di sentieri che confluivano su due punti distinti.94 Nel 1431, infatti, Mannino di Jacopo fu incaricato di provvedere alla risistemazione della strada attraverso la quale il materiale giungeva dalla foresta al porto di Moscia; quattro anni dopo lo stesso compito fu conferito al capomaestro dell’Opera, Battista di Antonio, il quale avrebbe dovuto dirigere i lavori di ripristino delle ‘vie della Selva’ che portavano a Dicomano.95

È logico pensare che queste strade, allestite poco prima dell’avvio del cantiere della Cupola, rappresentassero le arterie principali di un sistema di viabilità che si estendeva in maniera capillare all’interno del manto boschivo, la cui esistenza è documentata fin dal XIV secolo.96 Probabilmente le strade di smacchio predisposte dall’Opera costeggiavano i principali torrenti della zona, il San Godenzo e il Moscia, poiché i due corsi d’acqua rappresentavano di per sé il tragitto più agevole e breve per giungere ai punti di confluenza con il fiume maggiore dove, secondo la nostra ipotesi, erano ubicati i due porti. Del resto, anche il trasporto del legname proveniente dalle foreste di Strabatenza e Ridracoli, organizzato nel corso dei secoli successivi, prevedeva due diversi percorsi che confluivano verso altrettanti punti di approdo, entrambi ubicati sul torrente Fiumicello.97 Malgrado la scarsità di notizie sulle vie che conducevano ai porti fluviali desumibili delle nostre fonti, riteniamo che la rete viaria su cui si muoveva il legname dell’Opera ricalcasse l’orografia e l’idrografia del territorio, in maniera da ottimizzare al massimo le energie umane impiegate.

Ammettendo, dunque, l’esistenza di due punti di approdo diversi, situati a brevissima distanza l’uno dall’altro (tavola 2), rimane da chiarire la funzione di ciascuno dei due scali nello svolgimento delle condotte di legname. Lo studio sulle foreste casentinesi condotto da Gabbrielli e Settesoldi mostra che, a partire dal Cinquecento e a seguito dell’incremento del patrimonio forestale della fabbriceria, il trasporto dei traini si imperniava principalmente sul porto di Pratovecchio, posto in prossimità della sorgente dell’Arno, e che dalla metà del Cinquecento divenne sede stabile dell’ufficiale preposto alla custodia delle foreste della fabbriceria (tavola 1).98 Per quanto riguarda il periodo cronologico preso in esame nel presente studio, le fonti che abbiamo analizzato dimostrano che il porto di Dicomano era lo snodo centrale del trasporto di legname, nonché il luogo in cui i conduttori potevano conferire con il personale interno.99 Il documento di cui abbiamo già parlato, ovvero la delibera con la quale si conferì l’incarico di guardia dell’Opera a Mannino di Jacopo, riporta alcune informazioni utili a chiarire la funzione di questo porto nello svolgimento delle condotte. All’interno di questo atto si trovano nominati entrambi i porti, ma nel ricordo della delibera il provveditore scrisse chiaramente che l’incarico veniva conferito a Mannino «che sta a Dechomano» e che tale era la sede dell’ufficiale preposto al controllo del materiale.100 Ne deduciamo che il trasporto fluviale partisse dal luogo dove era obbligato a risiedere il foderatore e che ospitava, come abbiamo visto, l’unica segheria documentata per i due decenni ai quali si riferiscono i documenti de Gli anni della Cupola. Ovviamente il porto e la sega ad acqua erano situati fuori dal centro abitato, in un luogo adatto a ricevere il traffico di uomini e legname giunti a valle; probabilmente lo scalo vero e proprio si trovava lungo il tratto dell’ansa che il fiume creava a Sud-Est del villaggio.101

I porti fluviali ubicati lungo la Sieve, e principalmente quello di Dicomano, rappresentavano soltanto una tappa intermedia della condotta; essa, infatti, si poteva considerare conclusa soltanto quando il legname arrivava integro al porto cittadino nei pressi della porta della Giustizia.102 Il conduttore, tuttavia, era l’esecutore materiale del trasporto soltanto fino al luogo in cui, come abbiamo visto, il foderatore ufficiale dell’Opera iniziava la navigazione delle zattere fino alla città.103 All’interno della mole documentaria de Gli anni della Cupola, abbiamo individuato un’allogagione molto circostanziata e che può essere presa come riferimento per descrivere il percorso che il materiale avrebbe dovuto compiere e le cadenze dei relativi anticipi che il conduttore aveva diritto a riscuotere. L’atto in questione, datato 14 febbraio 1422, si trova all’interno del bastardello delle delibere e delle allogagioni redatto per mano del notaio dell’Opera e regolava l’appalto per la fornitura di materiale concesso a Jacopo di Martino da Fornace. In occasione della stipula di questo contratto, il conduttore si impegnò a trasportare a proprie spese i materiali lignei, opportunamente squadrati e tagliati a misura, e a consegnarli al porto di San Francesco entro la fine del settembre seguente. Per lo svolgimento di questi compiti, egli avrebbe dovuto ricevere un compenso di tre lire e cinque soldi per traino; tuttavia, il contratto prevedeva che il conduttore avesse la possibilità di riscuotere una parte di questa cifra, pari a dieci soldi, dopo l’avvenuta ricezione della fede della guardia della Selva, in cui si attestava il buon esito delle operazioni di taglio e dolatura.104 Successivamente, nel momento in cui il conduttore avrebbe deciso di procedere con il trasporto dei traini a valle («quando ipsa lignamina de silva trahere voluerit»), l’Opera si impegnava a concedere un ulteriore anticipo, stabilito a venti soldi per traino; mentre il pagamento della cifra restante sarebbe avvenuto soltanto dopo l’arrivo del legname al porto cittadino di San Francesco.105 L’ente si tutelava per il denaro anticipato al conduttore nominando un fideiussore, il quale avrebbe dovuto garantire per il contraente nel caso in cui la condotta non fosse andata a buon fine.106

Malgrado le allogagioni riferibili agli anni 1417-1436 menzionino soltanto il contraente dell’appalto, colui che era responsabile della condotta, possiamo ritenere che gli anticipi ricevuti fossero utilizzati per retribuire le squadre di boscaioli e trasportatori alle dipendenze del conduttore.107 Del resto, è impensabile che una sola persona provvedesse al taglio, al depezzamento e al trasporto di centinaia di fusti: si pensi che nel 1422 Gherardo di Vinci fu retribuito per aver condotto cinquecento traini, equivalenti a circa duecento metri cubi di legname.108 È probabile che la manodopera salariata venisse ingaggiata con contratti orali come avveniva, ad esempio, durante i secoli XVI e XVII nei boschi del Trentino.109

L’appaltatore della fornitura di legname dell’Opera era, probabilmente, un piccolo imprenditore che ingaggiava e retribuiva squadre di uomini da impiegare nella condotta. Alcuni documenti contengono espressioni del tipo «non incidant nec incidi faciant» o «conducere seu conduci facere» riferite agli appaltatori di materiali lignei e questo fa pensare che le allogagioni prevedessero la possibilità di subappaltare a terzi la fornitura di legname.110 Più che di imprenditoria vera e propria, tuttavia, possiamo parlare di fornitura di un servizio. Nel suo studio sul commercio del legname delle foreste tirolesi, Katia Occhi ha calcolato che il 42% del capitale della compagnia di due mercanti di legname era stato speso per ottenere la concessione di taglio, mentre gli investimenti nelle segherie rappresentavano l’8%.111 Tali esborsi di denaro non dovevano essere sostenuti dai conduttori di legname dell’Opera, i quali erano reclutati semplicemente per provvedere alle operazioni di disboscamento e al trasporto.

5. La fluitazione ed il trasporto dalle porte della città fino al cantiere

Fino al 1422, anno in cui Mannino di Jacopo fu eletto unico foderatore per il legname dell’Opera, i conduttori svolgevano sia l’assemblaggio dei foderi che la navigazione fluviale.112 Dopo questa data, la fabbriceria dispose che la navigazione fluviale fosse a carico dei conduttori ma fosse svolta dal foderatore ufficiale, retribuito per il trasporto delle zattere fino al porto di Firenze.113 Tuttavia, in contraddizione con questa provvisione, Mannino ricevette pagamenti stanziati dalla fabbriceria fino al 1435, oltre a svolgere in proprio numerose condotte di legname.114 La frequenza con la quale il nome del foderatore-conduttore compare nei documenti relativi alle forniture di materiali lignei non sorprende affatto: con la nomina di guardia del legname e foderatore, egli fu chiamato a dirigere i lavori nel principale punto di snodo dell’intero tragitto che dalla Selva portava al cantiere, laddove, cioè, si concentrava tutto il materiale proveniente dalle foreste e dove il percorso da seguire non erano più gli scoscesi sentieri di montagna ma il fiume, e quindi la prosecuzione del viaggio necessitava di una diversa figura di trasportatore. La fiducia che l’Opera accordò al suo ufficiale è dimostrata anche dal coinvolgimento di Mannino nelle condotte di castagni, particolarmente importanti perché questa essenza fu utilizzata per realizzare alcune parti strutturali della terza tribunetta, nonché la catena della Cupola. Nel 1421, gli Operai autorizzarono il pagamento di un fiorino da accreditare al foderatore, come ricompensa per il suo impegno nel reperire e nell’acquistare gli alberi di castagno. Alcuni anni dopo egli fu incaricato di attestare l’esito della condotta delle travi per la catena, affidata ai conduttori Nuto di Giovanni e Guadagnino di Jacopo.115

Durante il ventennio in cui fu costruita la volta maggiore del Duomo fiorentino, il percorso fluviale che il foderatore dell’Opera doveva compiere per arrivare in città era relativamente breve e sfruttava il corso della Sieve fino alla sua confluenza nell’Arno, e da qui fino alle porte della città. Cosa ben più impegnativa era la fluitazione del legname dal porto di Pratovecchio fino alla città (circa centotrenta chilometri). La figura 2 descrive la rete viaria attraverso cui veniva trasportato il materiale commissionato dalla fabbriceria e che si componeva di due diversi tragitti fluviali: la breve via Sieve-Arno, che rimase l’arteria principale per la navigazione dei foderi fino alla metà del Quattrocento (poco più di trenta chilometri) ed il corso dell’Arno compreso fra Pratovecchio e Firenze che, a partire dalla data dell’acquisizione dei boschi di Strabatenza e Ridracoli, costituì la lunga ‘via d’acqua’ che collegava la Selva alla città (circa centrotrenta chilometri).

Figura 2

Fig. 2. I due principali assi viari per il trasporto fluviale del legname dell’Opera di Santa Maria del Fiore:
1) Sieve-Arno da Dicomano a Firenze
2) l’Arno dal porto di Pratovecchio fino alla città
Elaborazione grafica della cartografia fornita da GEOscopio WMS, consultabile all’indirizzo http://www.regione.toscana.it/-/geoscopio-wms (URL attivo il 31 ottobre 2014).

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Un documento conservato nell’Archivio dell’Opera di Santa Maria del Fiore, risalente al 1648, elenca con dovizia di particolari le insidie e le difficoltà che i foderatori dovevano affrontare durante la lunga navigazione quali, ad esempio, massi sporgenti, fondamenta di antichi edifici che emergevano dal letto del fiume, pescaie troppo alte o malridotte. Lo stesso percorso offriva però alcuni ameni punti di sosta dove gli zatterieri potevano ristorarsi: luoghi ombrosi per sedere e mangiare, oppure piccole osterie «di buona posata».116 Anche se molto più breve, il viaggio che Mannino di Jacopo doveva affrontare non era scevro da pericoli: le fonti contenute ne Gli anni della Cupola riportano un episodio in cui la pescaia di un mulino causò notevoli ritardi nella consegna del legname. Nonostante gli ordinamenti in vigore imponessero che ogni opificio alimentato da energia idraulica fosse dotato di foderaia (un varco aperto nella struttura delle pescaie che permetteva il superamento degli sbarramenti e delle chiuse), il mulino del Busini, situato nelle vicinanze di Firenze, ne era sprovvisto.117 Il mancato rispetto delle norme aveva creato notevoli disagi per lo svolgimento delle condotte, poiché i foderatori si erano rifiutati di attraversare la pescaia ed avevano abbandonato sopra allo sbarramento i traini che trasportavano. Il proprietario dell’edificio, pertanto, ricevette l’ordine di pagare i carradori inviati dalla fabbriceria per trasportare il legname fino alle porte della città; la stessa ingiunzione previde anche che il contravventore provvedesse a spesare tutte le condotte future, dalla pescaia del suo mulino fino al porto di Firenze, pena la citazione in giudizio.118 Nei mesi successivi all’ingiunzione l’Opera dimostrò, tuttavia, di avere un occhio di riguardo nei confronti del Busini, il quale apparteneva ad una ricca famiglia fiorentina. Nell’aprile del 1422, infatti, fu emessa una nuova delibera in cui si annullarono i precedenti obblighi previsti come risarcimento e si autorizzò il figlio del Busini a condurre, o a far condurre, per i successivi cinque anni tutto il legname in partenza dal porto di Dicomano.119 Nonostante tali disposizioni, la documentazione non riporta altri elementi a testimonianza dell’appalto dei foderi concesso ai proprietari del mulino ma l’episodio mostra che la fabbriceria, in quanto diretta espressione dell’autorità pubblica, aveva il potere di ordinare la rimozione di tutto ciò che ostacolava il trasporto fluviale e che quindi danneggiava i propri interessi economici.

La fluitazione aveva termine con l’approdo dei foderi al porto di San Francesco, ubicato nei pressi della porta della Giustizia. L’incisione settecentesca dello Zocchi ci fornisce una vivida istantanea del traffico di uomini e merci che navigavano sull’Arno in direzione dei porti cittadini e sulla parte destra della figura si scorge il complesso strutturale dello scalo portuale (Fig. 3). Una volta giunte a destinazione, le zattere venivano estratte dall’acqua, slegate e i tronchi depositati sul «prato della Giustizia», lo spazio aperto situato di fronte allo scalo e che prendeva il nome dalla vicina porta.120 Il provveditore ed il capomaestro dovevano recarsi in questo punto di stoccaggio per verificare che il legname fosse in buono stato e conforme ai patti dell’allogagione, dopodiché il conduttore era ufficialmente liberato da tutti gli obblighi nei confronti dell’Opera e la condotta definitivamente conclusa.121 Ma il viaggio che il legname doveva compiere non terminava in questo punto: i trattori che avevano precedentemente estratto i foderi dall’acqua, caricavano i traini su carri e li conducevano fino alla piazza del duomo, la sede del cantiere.122 Il deposito di tutti i materiali da costruzione era situato nel casolare contiguo all’orto degli Alessandri, dove si svolgeva il lavoro degli scalpellini e dei segatori e nel quale potevano entrare solo le persone autorizzate.123 Nel 1434, poco prima della fine dei lavori della Cupola, Brunelleschi e il capomaestro ricevettero l’autorizzazione a far ‘rimurare’ una delle porte dell’edifico religioso posta di fronte alla casa di Luca Rinieri, attraverso la quale veniva condotto il legname e che, evidentemente, era stata allargata per permettere l’ingresso delle ingombranti travi lignee.124

Figura 3

Fig. 3. Giuseppe Zocchi, disegno preparatorio dell’incisione Veduta di una parte di Firenze presa fuori della Porta a S. Niccolò presso al Fiume Arno, 1744. Veduta d’insieme della città e del fiume.
Per gentile concessione di The Morgan Library & Museum (riproduzione riservata).

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I documenti che abbiamo citato in queste pagine danno conto della principale ‘via d’acqua’ per il trasporto di merci e uomini dell’intero stato territoriale della Repubblica fiorentina. Il corso dell’Arno fu un fattore fondamentale per lo sviluppo economico delle due maggiori città toscane del tardo medioevo. Fin dal XIII secolo, Pisa riuscì ad aprirsi al commercio con l’entroterra sfruttando la navigazione fluviale e Firenze, grazie alla sua ubicazione lungo il fiume, riuscì a compensare la lontananza dalle grandi vie romee che correvano lungo la Toscana Occidentale.125 Il contenzioso sorto fra la fabbriceria e il proprietario del mulino di cui abbiamo parlato nelle pagine precedenti dimostra che i corsi d’acqua non erano soltanto infrastrutture necessarie al trasporto di uomini e merci ma, al pari delle foreste, habitat fortemente antropizzati e che permettevano lo svolgimento di molteplici attività umane.126 La necessità di reperire una materia prima indispensabile all’industria e alla vita quotidiana, quale era il legno, configurò fortemente lo spazio urbano nell’area del porto. Il grande spazio aperto prospiciente l’approdo fluviale, corrispondente all’attuale piazza Mentana, fu destinato a deposito del legname fin dal XIV secolo e tale rimase fino alla seconda metà dell’Ottocento, tanto da prendere il nome di ‘piazza dei foderi’ e, successivamente, ‘piazza delle travi’.127 Si pensi che fin dal 1452, gli ingenti quantitativi di legname che la fabbriceria importava dalle foreste casentinesi furono esentati dal pagamento della gabella per la fabbriceria fiorentina. Ma anche l’attività dell’Opera come fornitrice di legname ha lasciato la propria traccia, non nello spazio fisico della città, ma nella lingua vernacolare fiorentina. Secondo la credenza popolare, le travi che la fabbriceria importava dalle foreste casentinesi erano contraddistinte dalla sigla UFO, acronimo di «ad usum florentine Operis», per essere esentate dal pagamento della gabella. Da qui deriverebbe l’espressione dialettale ‘viaggiare a ufo’, ovvero gratis.128

6. Il legno della Cupola e il legno per la Cupola: la catena e le strutture provvisionali

Nel corso dei venti anni in cui fu edificata la volta maggiore del duomo fiorentino, i materiali lignei pervenuti al cantiere furono quasi esclusivamente destinati alla realizzazione delle opere provvisionali, uno degli ambiti di più spinta sperimentazione brunelleschiana. Per la realizzazione del suo grande progetto, l’architetto studiò nuovi tipi di ponteggi e impalcature che permettessero la costruzione della volta, senza armature né centine.129 La disposizione e la struttura di questo complesso sistema di strutture lignee provvisorie è un argomento molto dibattuto, data la scarsità di documenti e di fonti iconografiche che ne descrivano la composizione. Antonio Manetti, nella sua biografia su Brunelleschi, parla di «ponti penzoli e stanti» ancorati all’intradosso della volta e di «ponti […] di nuove forme», mentre Vasari menziona le impalcature eseguite quando la curva della Cupola iniziò a farsi più stretta.130 Nonostante la scarsità di notizie, le opere provvisionali realizzate per l’esecuzione del progetto della volta rappresentarono una fondamentale innovazione in ambito cantieristico, tanto da essere studiate dalle successive generazioni di architetti, come attesta molta della trattatistica barocca. In un suo saggio sull’organizzazione del lavoro dei cantieri romani del Seicento, Nicoletta Marconi affermava che i ponteggi ‘a bilancia’ utilizzati per l’edificazione di strutture voltate di monumentali dimensioni, sarebbero di diretta derivazione dalle impalcature sospese progettate da Brunelleschi per la Cupola di Santa Maria del Fiore.131

I documenti editi ne Gli anni della Cupola contengono, perlopiù, dati quantitativi circa il materiale appaltato, informazioni preziose che, come vedremo tra breve, rispecchiano le fasi costruttive del progetto; ben pochi sono, invece, gli atti in cui si descrivono le dimensioni dei vari componenti lignei, utili per formulare ipotesi sulla struttura delle opere provvisionali. La maggior parte delle allogagioni che ci sono pervenute, infatti, dichiarano genericamente che il conduttore era obbligato a squadrare e a segare i tronchi secondo le misure fornite dal capomaestro, ma queste disposizioni non furono trascritte nel contratto di appalto, tranne rare eccezioni che abbiamo riportato nella tabella D in Appendice. A questo si deve aggiungere l’impossibilità di stabilire un’equivalenza fissa fra la misura volumetrica del legname da costruzione (il traino) e le dimensioni lineari contenute nella documentazione. Osservando la tabella D, vediamo che, in alcuni casi, l’unica misura data dal capomaestro per il taglio di un certo numero di componenti era il traino; mentre, in altre occasioni, questo era accompagnato dalla specificazione della lunghezza della trave. Evidentemente, tali indicazioni erano sufficienti affinché un conduttore, esperto maestro d’ascia, avesse la chiara cognizione delle misure da conferire ad un legno che avrebbe dovuto corrispondere a determinati traini. Ma cosa significava esattamente la parola ‘traino’? Non vi è dubbio che questo termine si riferisse all’azione di ‘tirare’ compiuta dal bestiame utilizzato nel trasporto. Secondo la definizione data dal Vocabolario degli Accademici della Crusca, si trattava del carico che un tiro di animali poteva trasportare in un solo tragitto e tale significato è attestato anche in un documento de Gli anni della Cupola.132 Con questo atto, si autorizzava ad appaltare a Piero di Nanni di Marignolle il sollevamento di materiali necessari per erigere la muratura della Cupola, utilizzando l’edificio progettato da Brunelleschi. Questo macchinario era azionato da un tiro di cavalli o buoi e perciò, come viene specificato nello stesso documento, il conduttore avrebbe dovuto essere retribuito un tanto a traino.133 Del resto, il bestiame bovino era impiegato anche nella discesa dei tronchi provenienti dalle foreste dei monasteri di Vallombrosa e di Camaldoli, nonché, come attestano le nostre fonti, anche dai conduttori reclutati in questi anni dall’Opera.134

Nei decenni documentati da Gli anni della Cupola, e fino ad un’epoca relativamente recente, il prezzo di mercato del legname era quantificato a traino.135 Relativamente ad alcuni secoli dopo, il settecentesco tariffario che Gabbrielli e Settesoldi hanno pubblicato in appendice al loro studio sulle foreste casentinesi illustra, passo dopo passo, i calcoli matematici per «ridurre con facilità a traini le travi d’abeto conciate da quattro facce e per valutarle secondo diversi prezzi».136 Ciò significa che i trasportatori e i mercanti di legname dovevano avere ben chiara la corrispondenza fra traino e lunghezza-altezza-larghezza di una trave. Secondo quanto riportato nelle tavole redatte dopo l’adozione del sistema metrico internazionale (anno di pubblicazione: 1877), questa unità di misura corrispondeva ad una trave di due braccia fiorentine di lunghezza mentre larghezza e altezza misuravano un braccio ciascuna, pari cioè a 0,3976 metri cubi. La tavola di ragguaglio mostra, inoltre, che il traino era leggermente diverso in ciascuna città della Toscana ma identica a Firenze e ad Arezzo.137 Questo ci sembra una chiara testimonianza dell’impatto che ebbe sul territorio la secolare amministrazione delle foreste casentinesi da parte dell’Opera, tale da imporre l’uniformità del volume del legname da costruzione in uso nelle circoscrizioni amministrative dei due centri urbani fino alla seconda metà del XIX secolo. L’equivalenza stabilita nelle tavole di conversione metrica differisce totalmente da quanto riportato nello Statuto della Repubblica fiorentina del 1415, dove si dice che per traino si debba intendere una trave di faggio o di abete lunga più di 10 braccia e che avesse un’altezza e una larghezza di tre quarti di braccio.138 La discrepanza fra questi dati ci porta ad ipotizzare che il traino fosse un’unità di misura volumetrica che aveva dimensioni lineari approssimative, divenute fisse soltanto quando, dopo l’Unità d’Italia, fu adottato l’odierno sistema metrico.

L’impossibilità di risalire alle dimensioni del traino ha reso difficile formulare ipotesi sulla struttura dei ponteggi della Cupola, possiamo soltanto affermare con certezza che essi erano costruiti in base ad un modulo, ripetuto per tutta la superficie muraria. A dimostrazione del nostro assunto, citiamo un’allogagione del ’22 per la condotta di alcuni ‘legni’ di abete, tagliati e dolati «sub solitis mensuris», specificando dimensioni e numero di ciascun componente. Un altro contratto redatto l’anno successivo stabiliva che i cinquecento traini richiesti a due conduttori fossero squadrati a gruppi di cento, secondo le misure dettate dal capomaestro per un solo centinaio.139 La modularità delle opere provvisionali per la volta maggiore è stata confermata nel corso dei recenti restauri degli affreschi della volta: le ispezioni sulle superfici murarie delle due calotte hanno rivelato la presenza di buche pontaie e ganci metallici, posti su assi orizzontali, ad una distanza di circa 2 metri l’uno dall’altro. Gli studiosi hanno elaborato ipotesi discordanti sulla funzione di questi occhielli: molti sostengono che essi servivano per ancorare i ponteggi sospesi, costituiti da due montanti verticali in ferro che avevano all’estremità un occhiello quadrato per accogliere la trave di appoggio del tavolato orizzontale.140 Secondo Rossi, invece, i ganci rinvenuti sulla superficie della volta sarebbero serviti per ancorare i canapi di rinforzo per le impalcature poggianti sulla piattaforma lignea. Lo studioso ritiene che non fosse possibile sorreggere un ponteggio sospeso, a meno che la muratura sovrastante agli occhielli non raggiungesse l’altezza di due braccia.141

Durante l’intero arco cronologico coperto dalle fonti edite ne Gli anni della Cupola, le forniture di legname furono regolari e massicce, segno dell’efficienza del sistema logistico che garantiva l’approvvigionamento di materiale. Fino al 1420, anno in cui fu avviato il cantiere della Cupola, i componenti lignei come, ad esempio, le assi e i pali dei ponteggi e delle centine, nonché i faggi, gli abeti e i castagni destinati alle trabeazioni dei tetti e ai componenti delle macchine, furono acquistati sulla piazza cittadina.142 Tuttavia, acquisti di particolari tipi di componenti lignei sono documentati per tutto l’arco cronologico che abbiamo preso in esame. Si trattava, perlopiù, di essenze pregiate con le quali furono create tarsie, i modelli della Cupola e gli elementi decorativi e strutturali degli appartamenti papali di Santa Maria Novella.143 Gli atti che autorizzano il pagamento di tali acquisti sono stati esclusi dal conteggio totale dei traini pervenuti all’Opera (tabelle A, B e C dell’Appendice) perché non riguardano forniture di materia prima reperita presso le foreste di Campigna, oggetto principale del nostro studio.144

La tabella C mostra i quantitativi di tronchi giunti ai cantieri che in questo periodo erano amministrati dalla fabbriceria fiorentina e che si trovano riportati dagli atti relativi alle condotte, ma dobbiamo tenere presente che tali dati numerici rappresentano soltanto una stima approssimativa di ciò che fu utilizzato per i ponteggi e le impalcature della volta maggiore. In questi anni, infatti, una piccola parte del materiale appaltato era destinato alla vendita sulla piazza cittadina e ai cantieri degli altri edifici che l’Opera stava costruendo negli stessi anni.145 A questo si deve aggiungere l’impossibilità di stabilire una precisa correlazione fra le forniture di legname e le strutture provvisionali che di volta in volta venivano realizzate poiché, come abbiamo già avuto modo di accennare, il recupero dei pezzi dismessi durante l’avanzamento del cantiere doveva essere una pratica abituale.146 Le tabelle che abbiamo redatto si basano su due differenti tipologie di fonti: per il periodo che va dal 1417 al 1431, abbiamo utilizzato i pagamenti stanziati per i carradori incaricati di svolgere le condotte dal porto cittadino fino al cantiere (tabella A) mentre per le annate successive abbiamo fatto ricorso alle allogagioni e ai pagamenti dei conduttori che lavoravano nella Selva (tabella B). La nostra scelta è stata dettata da vari fattori. Se le fonti relative alle condotte presentavano il vantaggio di coprire l’intero arco cronologico della realizzazione della Cupola, nella maggioranza dei casi, esse non dichiarano il numero dei traini appaltati ma solo il compenso spettante al conduttore. Inoltre, i pagamenti stanziati per i conduttori non ci dicono se la retribuzione in oggetto fosse stata stanziata per le operazioni preliminari al trasporto, il trasporto vero e proprio, oppure per il residuo al netto degli anticipi già corrisposti.147 I pagamenti relativi alle condotte svolte all’interno della cerchia muraria, invece, presentano il vantaggio di riportare con esattezza e con regolarità il numero dei foderi pervenuti al porto e le carrate trasportate fino al cantiere. L’incarico di questi trasportatori prevedeva, come abbiamo già accennato, l’estrazione delle zattere dall’Arno e il successivo trasporto del materiale su carro. Gli stessi documenti ci informano che ciascun fodero era composto da circa cinque traini, mentre ciascuna carrata, chiamata anche «traino di Firenze», conteneva tre «traini d’Alpe», riferendosi all’unità di misura del legname utilizzato nei territori della Selva.148 Gli stanziamenti per i compensi dei carradori, sebbene si siano rivelati di più facile interpretazione rispetto alle allogagioni e alle condotte svolte in foresta, hanno posto tutt’altro tipo di limite: esse si rarefanno vistosamente nel 1430, fino a scomparire del tutto dal 1431 in poi. A fronte di questa lacuna, Gli anni della Cupola contiene numerosi atti che riguardano l’approvvigionamento di legname anche per gli anni successivi a questa data. Nessuna delle nostre fonti riporta un elemento utile a fornire una spiegazione per l’improvvisa interruzione dei pagamenti delle condotte svolte all’interno della città, possiamo solo supporre che nel ’31 fosse avvenuto un cambiamento nelle modalità di registrazione contabile oppure una riorganizzazione degli incarichi del personale preposto a tale compito, tale da giustificare l’assenza di retribuzioni per questo tipo di trasportatori.

Pur avendo valore approssimativo, le cifre che abbiamo desunto dalle fonti rispecchiano l’andamento delle diverse fasi costruttive della Cupola.149 Nonostante le allogagioni ed i pagamenti ai conduttori dicano soltanto di rado la destinazione del materiale, possiamo supporre che fra il 1417 ed il 1419, i traini fossero destinati in gran parte alla realizzazione degli elementi strutturali del tetto della terza tribuna (castagni) e alle relative strutture provvisionali.150 A partire dal 1420, presumibilmente, il legname pervenuto alla fabbriceria fu impiegato principalmente per la catena lignea e per i ponteggi della Cupola.151 La tabella C mostra che nello stesso anno, l’Opera ordinò una cifra considerevole di legname e ciò è documentato anche nell’atto con cui, il 30 aprile del 1420, il personale interno fu autorizzato ad acquistare e a far condurre duecento pezzi di olmo, lunghi due braccia, per i pali del ponteggio, cento ‘abetelle’ di undici braccia ciascuna e ben ottocento assi di abete e faggio (tabella D).152 Con molta probabilità, questo grande numero di componenti era destinato alla realizzazione della grande base di appoggio innestata all’imposta della volta. Gli studiosi concordano sul fatto che si trattasse di un ponteggio a sbalzo, costituito da un tavolato orizzontale appoggiato su grandi travi innestate nella muratura; le buche pontaie sono ancora visibili sopra il ballatoio interno del tamburo.153 Tale struttura doveva essere allestita già nel giro di qualche mese dalla data della suddetta delibera, in quanto, nel luglio dello stesso anno, fu autorizzato il pagamento di un legnaiolo per la costruzione di otto centine, tante quante le vele della Cupola, e che probabilmente poggiavano sul ponteggio perimetrale. Appena un anno dopo, due diverse compagnie di segatori ricevettero il compenso che spettava loro per aver tagliato, complessivamente, diciassette faggi, da cui erano state ricavate circa novecento braccia di assi, destinate probabilmente alla realizzazione della grande piattaforma orizzontale.154

La stessa tabella mostra che nel 1422 l’Opera appaltò il trasporto di un ingente numero di traini, forse per provvedere al materiale necessario all’assemblaggio di un nuovo tipo di opere provvisionali, in un momento in cui, come racconta Giorgio Vasari, l’inclinazione delle due calotte stava aumentando.155 In questo stesso periodo, sono documentati numerosi acquisti di travi di castagno, destinate, come abbiamo avuto modo di accennare in precedenza, al completamento della copertura della terza tribunetta e per la catena lignea della volta di prossima realizzazione.156 I documenti mostrano che, a differenza degli altri materiali lignei, i castagni non furono condotti dalle foreste dell’ente ma vennero acquistati da privati che possedevano alcune porzioni di manto boschivo situate nei pressi della foresta di Campigna. Il conduttore, infatti, non veniva retribuito soltanto per il trasporto e per le operazioni di disboscamento ma anche per l’acquisto degli alberi.157

 La grande catena di castagno era formata da ventiquattro grosse travi, collegate fra loro mediante elementi angolari realizzati con tronchi di quercia. Essa si colloca appena sopra al primo camminamento orizzontale e fu l’unica ad essere costruita fra le quattro catene di legno previste dal progetto originario. Nelle intenzioni dell’architetto, questo grande anello di legno inserito all’interno della muratura serviva per congiungere gli sproni verticali che attraversavano gli spicchi della calotta, in maniera tale da creare una fascia elastica di assorbimento delle tensioni.158 Per illustrare la struttura ed il funzionamento della catena, Brunelleschi costruì un apposito modello e, come abbiamo già accennato in precedenza, acquistò personalmente le querce per gli elementi di raccordo delle travi.159 Sfortunatamente non ci è pervenuto nessun documento contenente le misure dei grandi tronchi destinati alla catena ma possiamo ritenere che le loro dimensioni fossero maggiori rispetto alla trabeazione in ‘castagnetti’ del tetto della tribuna160. L’ampiezza del diametro di questi fusti è suggerita da un documento in cui venne autorizzato il pagamento di una sega da utilizzare esclusivamente per le travi di questa struttura; tale arnese misurava tre braccia e mezzo di lunghezza, pari a circa due metri.161

Solitamente, le annate caratterizzate da ingenti ordinativi di materiali lignei erano seguite da periodi in cui il numero dei traini allogati fu abbastanza contenuto, probabilmente proprio a causa della pratica del reimpiego del legname dismesso. I numeri più bassi, infatti, si hanno fra il 1424 e la fine del 1427, e cioè negli anni attorno al 1425, quando i lavori subirono un’interruzione per la revisione del progetto iniziale.162 Tuttavia, i quantitativi dei traini non furono influenzati soltanto dal fabbisogno di legname da opera ma anche da eventi, per così dire, esterni. La flessione degli ordinativi fu in parte dovuta alle minori esigenze di componenti lignei ma soprattutto alla guerra intrapresa da Firenze contro il Ducato di Milano durante gli anni venti del Quattrocento, che rese difficile il reperimento di materiale dal territorio. La documentazione de Gli anni della Cupola ci restituisce, di riflesso, il continuo stato di allerta in cui si trovavano le comunità poste ai margini della Selva di Campigna. Nel 1421 furono stanziate dieci lire per i conduttori incaricati di ripristinare le vie di smacchio, precedentemente chiuse a causa della guerra; nel ‘22 la fabbriceria chiese il parere del giurista Giovanni da Gubbio per dirimere una questione riguardante un appalto interrotto a causa del conflitto armato. Un altro documento mostra la necessità di provvedere alla fortificazione dei villaggi di montagna per resistere agli attacchi delle truppe nemiche: il pagamento di una condotta di Francesco di Comuccio e Jacopo di Sandro, autorizzato nel 1428, prevedeva che una parte dei soldi spettanti ai due conduttori fosse destinata alla costruzione di opere difensive a protezione del borgo di Castagno (tavola 2).163 A questo si aggiunse la conseguente crisi finanziaria dell’Opera, tanto da causare, nel 1430, l’interruzione del lavori, testimoniata dallo scarsissimo numero di traini giunti al porto di San Francesco nel 1432. Tuttavia, a conferma del buon funzionamento del sistema logistico delle forniture di legname, dobbiamo sottolineare un dato rilevante: nonostante il rallentamento dei lavori del cantiere dovuti alla guerra e alle difficoltà finanziarie, l’approvvigionamento di legname non si interruppe mai del tutto.164

Dopo il 1432, il numero dei traini riprende a crescere sensibilmente, proprio in vista dell’allestimento della grande impalcatura che sarebbe servita come base di appoggio per innalzare i materiali lapidei fino all’anello di chiusura.165 A questa data, il terzo camminamento e l’ultima catena di pietra erano stati completati e l’inclinazione delle vele e il diametro della cupola richiedevano nuovi tipi di strutture provvisionali. Secondo Paolo Bianchini, i ponteggi realizzati fino ad allora furono sostituiti da un unico grande ballatoio orizzontale, montato sulla calotta esterna, realizzato, probabilmente, con il materiale appaltato nel maggio del 1430 (tabella B).166 I lavori di edificazione della Cupola volgevano ormai al termine e, nello stesso anno, Brunelleschi costruì il modello per la chiusura dell’occhio centrale della volta.167 La tabella che riporta il numero dei traini pervenuto al cantiere mostra che nel 1436, anno in cui la volta maggiore fu completata, gli ordinativi di legname triplicarono rispetto all’anno precedente: l’Opera si apprestava a procurarsi il materiale che avrebbe permesso la costruzione della lanterna, il coronamento visivo della grandiosa struttura.

7. Conclusioni

Con la chiusura del cantiere della Cupola di Santa Maria del Fiore, la ricostruzione della cattedrale cittadina, simbolo della magnificenza e del potere della Repubblica, si avviava alla conclusione. Le vicende che portarono alla scelta del progetto brunelleschiano e le fasi costruttive della Cupola sono ben note, mentre meno conosciuto è l’immane investimento, in termini economici e umani, che comportò la realizzazione di tale impresa. La possibilità di disporre in maniera pressoché illimitata e gratuita di legname da costruzione, il cui trasporto fu appaltato con un ritmo incessante, fu resa possibile dalla donazione fatta dal Comune delle foreste casentinesi. Da quel momento in poi, la foresta divenne per la fabbriceria una vera e propria ‘cava’ di materiale, tanto che i documenti parlano di ‘estrazione’ dei tronchi dalla Selva, ponendosi in netto contrasto con le istanze di sostentamento della popolazione locale. Ma il bosco e le sue genti non furono i soli a essere subordinati e allo stesso tempo partecipi dell’impresa; il fiume fu l’altro fattore indispensabile all’approvvigionamento del legname dell’Opera, un’arteria viaria che collegava la foresta al cantiere del duomo. Si pensi che l’Opera di Santa Maria della Scala di Siena, città che non era attraversata da un corso d’acqua, fu costretta ad acquistare sul mercato materiali lignei già lavorati oppure lotti di boschi appartenenti a privati e che erano situati a pochi chilometri di distanza delle mura urbane.168

Il complesso e ambivalente rapporto che la fabbriceria fiorentina instaurò con il territorio rafforza, a nostro avviso, il carattere civico dell’impresa della costruzione della cattedrale cittadina; territorio sul quale Firenze aveva esteso il suo dominio durante i secoli finali del Medioevo e da cui trasse le risorse materiali e umane per il completamento dell’edificio religioso, che avrebbe dovuto simboleggiare la magnificenza della Repubblica. Gli ingenti quantitativi di legname che pervennero al cantiere in maniera pressoché incessante furono impiegati soltanto in minima parte nella struttura muraria della Cupola; ma questo materiale fu indispensabile per la sua costruzione. Brunelleschi, infatti, creò innovative macchine per il sollevamento dei pesi, nonché nuove tipologie di impalcature e ponteggi; la cantieristica giunse così a rappresentare una fase progettuale a sé stante, indispensabile all’edificazione di una struttura così ambiziosa.


Tavole fuori testo

Tavola 1

Tavola 1. Inquadramento territoriale.
La carta riporta gli attuali confini del Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, la rete dei percorsi fluviali utilizzati per la navigazione del legname e l’ubicazione dei principali punti di approdo intermedi.
Elaborazione grafica della cartografia fornita da GEOscopio WMS: http://www.regione.toscana.it/-/geoscopio-wms , URL attivo il 31 ottobre 2014.

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Tavola 2

Tavola 2. Le tappe del tragitto del legname dalla foresta di Campigna fino ai porti fluviali nel secolo XV
Elaborazione grafica della cartografia fornita da GEOscopio WMS: http://www.regione.toscana.it/-/geoscopio-wms , URL attivo il 31 ottobre 2014.

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Appendice